Sembra assurdo ma una tecnologia straordinaria come la fotovoltaica, che produce energia elettrica grazie ad una fonte inesauribile e non inquinante, ha dato il via a una folle corsa speculativa a discapito dell’agricoltura. Decine e decine di aziende che operano nel campo delle energie rinnovabili hanno scoperto il nuovo business nell’installare per ettari ed ettari pannelli fotovoltaici tra coltivazioni agricole. A questo proposito, si raccolgono segnali preoccupanti tra le diverse Regioni. Un caso indicativo è quello della Regione Puglia, dove l’Arpa ha comunicato ai competenti uffici regionali di formulare “parere contrario” a ogni nuovo insediamento fotovoltaico in ambito agricolo. Si tratta d’impianti che spesso hanno una potenza tale da dover impegnare grandi superfici agricole, nonostante l’uso dei terreni dovesse rappresentare una scelta secondaria rispetto all’uso di superfici più idonee, come i capannoni industriali e le discariche non più operative, i tetti e le pareti di edifici pubblici e privati, i terreni incolti, i manufatti lungo strade e autostrade e così via. Il vero rischio ora è la “silicizzazione selvaggia”, dopo la “cementificazione selvaggia” di buona memoria. Comuni e province si lamentano ma non possono impedirlo, sembra non abbiano strumenti adeguati per impedire o regolare questo modo di far energia sfruttando il territorio agricolo. Ma perché, sostituire la coltivazione agricola dei campi con “campi fotovoltaici”?  Principalmente perché la coltivazione agricola rende meno che quella “elettrica”; soprattutto ora con l’arrivo sul mercato agricolo di nuovi paesi produttori a costi più bassi. Certamente l’energia solare deve essere sfruttata, ma non a scapito del territorio in termini di copertura artificiale. Sarebbe ridicolo che un intervento ecologicamente giustificato incida negativamente sul bilancio ecologico complessivo. I pannelli fotovoltaici sono incentivati non per distruggere il territorio ma per occupare spazi diversamente inutilizzati. In effetti, questo è il punto; dietro la febbre di disseminare quanto più fotovoltaico possibile nelle campagne, anziché sui capannoni e in altre zone idonee, ci sono gli incentivi statali, da sfruttare comunque e rapidamente perché presto finiranno, e c’è il maggior utile dato dai suoli agricoli, meno costosi e più disponibili. Riempie di tristezza il constatarlo, ma purtroppo, dietro la green economy, si nascondono i vecchi “vizi” di quel capitalismo italiano che succhia avidamente i pubblici incentivi. Oggi la parola d’ordine è “energia pulita” ma non illudiamoci che il fotovoltaico non sia inquinante, ci si dimentica che i diodi sono drogati con terre rare (tellurio, gallio, indio in sali a base di arsenico, rame e cadmio), che per costruire un pannello si consuma energia e che al termine della sua vita (25 anni max) diventa un rifiuto pericoloso.
   
         

Dalmine, agosto 1910
 
 

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