La leggenda è un tipo di racconto molto antico e fa parte del patrimonio culturale dei popoli, appartiene alla tradizione orale e nella  narrazione mescola il reale all'incantevole, indica qualsiasi racconto che presenti elementi reali ma trasformati dalla fantasia popolare, tramandato per celebrare fatti o personaggi fondamentali per la storia di un popolo.


(1) Il portone del diavoloP15 PortoneDiavolo
Sulla sinistra dello stradone che da Bergamo porta a Seriate, si trova una specie di portale aperto (Portù del Diàol) tra due larghi stipiti e un alto frontone in pietra di Zandobbio, il quale serve d’ingresso al viale che conduceva alla casa di campagna, ormai scomparsa, detta Celladina. Fu costruito nel 1550 da Sandro de Sanga per ordine del conte Gian Giacomo de’ Tassis della famiglia del grande Torquato, allora (il conte Giacomo) proprietario della casa. Sul frontone si può ancora leggere la scritta: IO IACOBUS TASSUS COM ET EQ. sormontata dallo stemma di famiglia poi scalpellato. Fin qui la storia. La leggenda è ben altra. Il popolino vuole invece che quella costruzione fosse costruita in una sola notte dal Diavolo in persona, senza farsi accorgere da nessuno. Si dice anzi che questo, chi sa per quale capriccio, in una delle notti successive l’avesse demolita e poi rifatta subito in quattro e quattr’otto. Dello svelto muratore infernale nessuna traccia, all’infuori di un forte odore di zolfo che, nelle sere di temporale quando laggiù c’è lite in famiglia, si spanderebbe tutt’attorno al manufatto. Nulla da obiettare sulla leggenda, se non si tenesse conto di una rozza epigrafe molto corrosa che si può leggere a tergo del Portone e così concepita: SANDRO DA SANGA,   FATOR A FATO QUESTA,    STRADA E FATO,    COSTRUR QUESTA PORTA:


 (2) Il prato del diavolo
Si dice che a Gazzaniga, là dove ora sorge un cotonificio, si stendesse un grande prato con una casa colonica nella quale, nei giorni di festa, i giovani e le giovani si radunavano a ballare con grande scandalo degli abitanti di Gazzaniga e del loro parroco. Una notte, una giovane, ballando con un elegante ballerino che non la lasciava respirare per la foga con cui la conduceva nel ballo, abbassatasi per accomodarsi una scarpa che le si era slacciata, si accorse con orrore che il suo ballerino aveva piedi e stinchi di caprone. Diede un grido e tentò di svincolarsi dalle braccia del suo giovane ballerino, ma questi sparì, sollevando una fumosa fiammata e facendo crollare tutto il cascinale. Da allora quel prato si chiamò il  “Prato del diavolo”


 (3) Cassiglio

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Si dice sull’origine del nome di Cassiglio, paese dell’alta val brembana, che, quando Iddio ebbe finito di mettere insieme il mondo, s’incamminò fuori del Paradiso accompagnato da un angelo che portava una cesta con dentro i paesi da far sorgere qua e là. Compiuto il suo giro, mentre il Creatore, contento di aver finalmente terminata anche questa faccenda, rifaceva la via del ritorno, l’angelo si accorse che, in un angolo della cesta, era rimasto un paesino proprio da nulla. “Che cosa devo fare?” chiese. “Cassìl igliò (cacciatelo lì) rispose il Padre Eterno con burbera indifferenza. L’angelo lasciò cadere quei rimasugli e nacque Cassiglio il cui nome deriverebbe dalle parole dette dal Padre Eterno al suo angelo.



(4) L’Orco di Stabello
A Stabello si racconta che il fantasma dell’Orco discenda dalla valle Passogn a certe ore del mattino o della sera e che si metta sul ponte di confine tra Zogno e Stabello per divertirsi a vederq890orco passare i nottambuli o i troppo mattinieri sotto le sue gambe divaricate. Viene raccontato che un portatore di latte che non voleva passare sotto le sue gambe, dopo aver urtato una di queste, rotolò per una cinquantina di metri a causa di un calcio ricevuto dal fantasma stesso.
Si racconta anche che a Gandino uno stesso fantasma giocò un brutto scherzo a una ragazza che passava sotto le sue gambe tutte le mattine per recarsi a messa. L’Orco, infatti, aveva donato alla ragazza un gomitolo di lana con il quale si era fatto uno splendido vestito, ma il giorno che lo poté indossare per la prima volta, appena entrata in chiesa, godendo dentro di sé per la gelosia delle compaesane, fu colta da un grande sbalordimento e in quattro e quattr’otto si ritrovò in sottana, perché il vestito le era sparito in un soffio.



(5) Il diavolo ai forni Paladini
A Schilpario, nella località detta Paladina, a poca distanza dal centro del paese si dice vi fosse un’osteria dove la domenica i giovani erano soliti radunarsi per divertirsi smodatamente. Il parroco aveva più volte esortato le madri a proibire quei convegni ai figli e soprattutto alle figlie, ma invano. Una domenica sera, durante una funzione in chiesa, lo stesso parroco, ispirato dal cielo, mentre predicava, disse “chi ha figlioli e figliole ai Forni della Paladina sappia che lassù è apparso il diavolo e va tutto in rovina”. Seguito dalla popolazione si portò sul luogo e non vi trovò che una voragine senza più nessuna abitazione.

 
 6) I lupi di Bondione
A Bondione si racconta che, una volta, tanti anni fa, la carestia era così grave che perfino i lupi non trovavano di che nutrirsi nei boschi e si avvicinavano all’abitato. Un tale, una sera, vide capitargliene due in cucina. Non ebbe paura, anzi sentì compassione per quegli strani ospiti e versò il siero rimasto nella zangola, in una ciotola di legno piena di polenta, dove le due belve si affrettarono a mettere il muso e mangiare avidamente. Poi se ne andarono scodinzolando. Pochi giorni dopo, il nostro uomo, sul sentiero che, tra boschi e pascoli conduce a Bondione, s’incontrò con due omacci male in arnese e magri da far paura, che, con atti e parole, gli manifestarono il piacere di vederlo. Alla fine uno di essi gli rivelò che lui e il compagno erano stati da lui pietosamente sfamati, quando, essendo stati mutati in lupi, si erano presentati in casa sua. La leggenda, panzana, pare creata apposta per dare consistenza al detto “fame da lupi”.


(7) La leggenda dell’Avarone e il Monte AvaroCusio (BG): Il monte Avaro
Nell’alta val Brembana a Cusio, si narra di una diabolica leggenda, quella di Avarone. Costui era un giovane mandriano al servizio di un ricco padrone che lo maltrattava e spesso malmenava. I maltrattamenti nei confronti del ragazzo non fecero altro che renderlo più forte e più resistente, tanto che riuscì ad arricchirsi con alcuni affari andati a buon fine. Ben presto riuscì a diventare talmente ricco da dedicarsi al commercio per proprio conto. Crescendo divenne un uomo così avaro da guadagnarsi il soprannome di Avarone.  Un giorno riuscì a concludere un affare molto importante, ingannando un suo amico in fallimento e facendosi vendere un enorme campo in cima a un monte nelle vicinanze di Cusio. Arrivato in cima, dopo molta fatica e molto cammino, si accorse con rabbia e delusione che i campi comprati per un prezzo bassissimo erano inutilizzabili, poiché pieni di pietre. Con la rabbia che avvampava nel suo cuore, si ritrovò a dire che avrebbe venduto la sua stessa anima al diavolo, pur di poter utilizzare quei campi. Non fece in tempo a concludere che tra due massi comparve il Diavolo in persona. In cambio della sua anima, il Diavolo si prese la briga di ripulire il campo con un centinaio di altri diavoli minori. Soffione, uno dei diavoli, soffiò via le pietre talmente forte, da renderlo completamente sterile. Avarone scappò via, e andò nella vicina chiesa dove si attaccò alle campane e le suonò finchè l’armata infernale non fu completamente scomparsa. Nessuno ha mai più osato andare su quel campo da allora, poiché si dice che sia maledetto. Nessuno sa che fine abbia fatto Avarone. In memoria di lui, il monte fu soprannominato Monte Avaro.

 
(8) La leggenda dei Laghi GemelliAlta val Brembana (BG): I laghi gemelli
Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d'acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, attorno alla loro origine sorse una leggenda scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Val Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata. Il loro amore era però contrastato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore. La ragazza era stata promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente. Mentre si avvicinava il giorno delle nozze, l'infelice ragazza passava le sue giornate, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, sospirando per il suo bel pastorello. Costui si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato escluso con la minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno. Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, ma non ottenne nessun risultato. Un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all'apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. La ragazza cominciò a migliorare, tornò a sorridere, a parlare e riprese a mangiare. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai tutti abbiamo intuito la vera identità di quell'improbabile medico e si sarà fatta un'idea della natura delle cure cui era sottoposta la ragazza. Infatti, egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell'equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi. Ma il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti, avrebbero pagato caro quell'inganno. D'altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d'amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo. Di buona lena salirono lungo il sentiero della val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare, udirono per un attimo, il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò. Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così a un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l'orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile. Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione e i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide sorgenti d'acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli.


(9) Il drago volante
Il Drago Volante (cosi' chiamato) abitava nei dintorni di Santa Brigida, ben noto a tanti. Nessuno sapeva però dove avesse la sua tana, quando appariva come una furia, scoperchiava i tetti delle case con lo sbattere delle ali e poi spariva non dimenticandosi però di portarsi via qualche agnello o capretto. Quando poi il drago decideva di avventurarsi sulle sue prede di notte, si calava dal cielo tenendo tra le zampe 2 grosse gemme che utilizzava per illuminarsi il cammino. Un giorno un certo Bulgher, uomo forte e astuto, decise di sfidare il drago. Il Bulgher di Santa Brigida riuscì a scoprire dove il drago si rifugiava: le pendici del Monte Pugna. Una notte quatto quatto con una cappa nera sulle spalle, salì sul pianoro e approfittando di un attimo di distrazione del drago si avventò su una delle due gemme forforescenti ma appena la toccò lanciò un urlo mentre intorno a lui si scatenava l'inferno.... vento e tempesta scuotevano gli alberi del bosco. Quella furia si placò solo al mattino, Bulgher più morto che vivo per lo spavento, tornò al paese di Santa Brigida con le mani ancora bruciacchiate e per cento e cento volte ripetè quello che gli era successo e per secoli lo ripeterono i nonni ai loro nipoti.

 
(10) La càvra del Zambèl
Una volta una bambina stava cucinando, mentre i genitori erano nei campi. Non avendo più sale per l'acqua della polenta, decise di andarlo a comprare alla bottega, ma durante la sua assenza nella casa s’ introdusse una capra bisbetica. Al ritorno, la bambina si accorse che qualcuno era entrato in cucina e dal corridoio chiese chi fosse. Per tutta risposta sentì una voce belante:
"Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè 'l daró 'n dèl canarùsso".
La bambina fu presa da un tale spavento che uscì di corsa dalla casa, poi in preda alla disperazione si sedette sui gradini dell'ingresso e si mise a piangere a dirotto. Passò di lì un tale che, messo al corrente dell'accaduto, cercò in tutti i modi di convincere la capra ad uscire dalla casa. Ma non ebbe successo: la capra, testarda, lo affrontò a cornate e ripeté la minacciosa filastrocca:
"Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl ……..
Anche l'uomo fu preso da grande spavento e si allontanò in fretta da quel luogo. La bambina, che ormai a forza di piangere non aveva più lacrime, fu colta da un improvviso e persistente tremore e, quando passò di lì un altro uomo, si affrettò a mettere anche questo al corrente della sua sventura.
Altro tentativo del nuovo arrivato di convincere la capra a lasciare la casa e nuova reazione risoluta e minacciosa dell'animale che ripeté la filastrocca e convinse il malcapitato a darsela a gambe. Finalmente arrivò un uccellino che cinguettando consolò la bambina e resosi conto della brutta situazione in cui si trovava, cercò di portarle aiuto, entrando in cucina e svolazzando freneticamente e a lungo attorno alla capra. Tuttavia non ottenne apprezzabili risultati, perché la capra, imperterrita, belò anche a lui quella strana filastrocca:
"Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl ……
L'uccellino non si perse d'animo e non appena la capra ebbe concluso la sua minaccia belante, le rispose a tono cinguettando minaccioso:
"E me só l'uselì dèl bèc istòrt
e se ta ègnet mia de fò söbet
te l' casseró 'n dèl còrp!".
A quelle parole la capra, terrorizzata, se la diede a… zampe levate e così l'uccellino e la bambina poterono rientrare in casa dove mangiarono allegramente tutto quello che trovarono nella dispensa.
"E i à fàcc pastì e pastù
e i ma n'a 'nvidàt gnà ü bucù.
Me sére sóta 'l tàol a mundà 'l rìs
e i m'a gnà décc:
Gioanìna, öt de bìf?".
Tratto da “Storie e leggende della Bergamasca” di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani - Ferrari, Clusone, 2001


(11) La leggenda delle cascate del serioValbondione (BG): le cascate del serio
Le cascate del Serio sono, con un'altezza di 315 metri, le più alte d'Italia e le seconde d'Europa. La caduta delle acque presenta tre salti di diversi dislivelli, sullo sfondo del paesaggio splendido e suggestivo, del Parco del Serio. Le origini della cascata sono legate a una leggenda che vede come protagonista una giovane dama innamorata di un pastore che si aggirava con il suo gregge in quei monti. Egli, però, era fidanzato con una bellissima ragazza del borgo, e non intendeva lasciarla. Non riuscendo a frenare la gelosia per la fidanzata del giovane, la nobile dama decise di rapire la ragazza, facendola poi rinchiudere nelle segrete del proprio castello posto sulla sommità di una rupe sulle alture del Barbellino. La poverina era disperata, capiva che per lei era finita e cominciò a piangere. Il suo pianto sgorgò intenso, forte, le lacrime formarono rigagnoli che misteriosamente divennero torrenti impetuosi e distrussero ogni cosa, castello e dama compresi, e mutarono il paesaggio creando il vertiginoso salto per tuffarsi nel fiume serio.
Nel 1931 fu costruita la diga che regola la caduta dell'acqua dal bacino del Lago del Barbellino e le cascate non furono più visibili. Solo dal 1969 fu possibile ammirare nuovamente le cascate, (grazie ad un accordo tra Enel, e l'amministrazione di Valbondione). Tornarono a essere permanentemente visibili tra il 1975 e il 1977, a causa di alcuni lavori di restauro della diga. Attualmente è possibile ammirare la cascata per cinque volte l’anno, solitamente una domenica al mese tra giugno e ottobre, a volte anche in notturna. In queste occasioni, viene aperto l'invaso del Barbellino per mezz'ora, lasciando defluire tra gli 8.000 e i 10.000 m³ di acqua che vanno ad aumentare la portata del Serio.

 
(12) La leggenda della presolanaLa Presolana (BG)
Tanto tempo fa a Colere abitavano quattro sorelle: Erica, Gardenia, Genzianella e Rosina. Le quattro graziose fanciulle, erano solite andare nei boschi a raccogliere legna. La loro simpatica allegria si manifestava anche con canti melodiosi, e così il tempo trascorso al lavoro nei boschi scorreva più gioiosamente. I folletti, da sempre abitanti nella montagna, subirono dapprima il fascino del soave canto delle ragazze, nascosti tra le rocce a spiare, furono poi conquistati anche dal gradevole aspetto delle belle fanciulle. Timidamente si fecero avanti e le quattro sorelle non si spaventarono; divisero anzi con i folletti il pasto che si erano portate da casa, trascorrendo con loro in allegria tutto il resto della giornata. Conquistati dal fascino femminile delle loro nuove amiche, verso sera a malincuore i folletti videro le giovani riprendere la via di casa; si fecero però promettere di ritornare per il sabato successivo. Ma i folletti trepidanti aspettarono invano, le quattro ragazze preferirono la compagnia dei ragazzi del paese, e vennero meno alla promessa fatta; non solo mancarono all'appuntamento, ma risero e si burlarono dei folletti, prendendosi gioco di loro. Questi ultimi, dapprima delusi, divennero poi furibondi per essere stati presi in giro e meditarono la loro vendetta. Quando le ragazze dopo un po' di tempo ritornarono a raccogliere legna nella zona dell'incontro, i folletti, pieni di odio e di rabbia, uscirono dalle loro caverne e, dopo aver circondato le ragazze, intonarono canti terribili e minacciosi, accompagnandosi con strumenti musicali dai quali uscivano suoni assordanti. Le fanciulle, pazze di terrore e di paura, rimasero paralizzate, e proprio lì furono pietrificate dai folletti che così le poterono avere per sempre vicino a loro. Ancora oggi i quattro torrioni di roccia che si protendono verso il cielo, rappresentano un monito per tutti: mai burlarsi della natura, e mai sfidare la montagna, i suoi equilibri e le sue regole.


(13) Leggenda del pane nero
Si dice che, un tempo, il paese di Ranzanico fosse più popolato e più esteso di adesso fino a inglobare la chiesetta di S. Bernardino e la cappella di S. Fermo, ora distante dall’abitato. Si racconta su quel paese che per scoprire quali tra gli abitanti di Endine Gaiano e Ranzanico fossero i più corrotti e malvagi, venne posto sul confine dei due paesi un palo che sorreggeva un pane bianco: la parte del pane che sarebbe annerita per prima avrebbe assegnato il verdetto. Purtroppo il pane divenne nero verso il paese di Ranzanico ed il Signore, per penitenza, mandò una grande pestilenza alla quale nessuno, proprio nessuno, sopravvisse. Pare che tre frati assistettero i malati colpiti dalla pestilenza e, una volta morti tutti gli abitanti, si mossero per abbandonare il paese, ma giunti a un centinaio di metri fuori dall'abitato, caddero all’istante in terra senza vita. A loro venne dedicata la cappelletta dei "morcc de l'ivra" (i morti di lebbra), sostituita, poi, dalla cappella realizzata a suffragio dei caduti della grande guerra. Secondo questa leggenda, il nome del paese sarebbe derivato nientemeno che dalla fusione delle due parole “Razza Iniqua” (popolo malvagio) a causa della corruzzione e della malvagità degli abitanti.


(14) Il canto del gallo
Nel paese di Schilpario si racconta un graziosa leggenda di genere sentimentale. Dopo la peste del 1630, tutta la popolazione della Valle di Scalve era morta per la grave pestilenza, tranne un giovane il quale, incamminatosi fuori del paese per emigrare lontano da quella tragedia, fu richiamato indietro  dal cantro di un gallo. Ritornato in paese, vi trovò una fanciulla sola sulla porta di casa, anch’essa sopravissuta alla peste. Lui l’amò e la sposò. Dall’unione di quei due fortunati superstiti avrebbe avuto inizio il ripopolamento della valle di Scalve. I primi villaggi furono Vilmaggiore e Vilminore.   


(15) Le streghe di Cà del Foglia
Nel medioevo, tutta l’Europa era piena di streghe e di stregoni. Niente meraviglia, quindi, se anche la Bergamasca fosse piuttosto ricca di questo deplorevole prodotto della superstizione.   Di streghe ce n’erano, si può dire, in ogni paese ma pare che la frazione di Cà del Foglia, a Brembilla, fosse particolarmente indiziata come residenza di streghe. Oltre ai più dannosi malefici, si attribuiva alle streghe la diabolica facoltà di trasformazione, oltre che in volpi, anche in gatti, in capre e altri animali. La gente del luogo racconta che, una volta, un cacciatore avendo ferito una volpe con una scioppettata, la vide fuggire verso la contrada. Poco dopo, le campane avendo suonato il viatico per una vecchia in fama di strega, se ne arguì e si disse da tutti che la volpe ferita altro non era che la stessa vecchia moribonda. 

 
16) La leggenda della Val d’InfernoFucina
Una delle zone più frequentate dagli amanti della montagna è la Val d'Inferno, quella lunga e ripida distesa di boschi e pascoli che da Ornica sale fin verso il Pizzo dei Tre Signori. Un tempo la valle non aveva questo nome, ma si chiamava Val Fornasicchio, probabilmente per la presenza, nella sua parte più bassa, di forni e fucine per la lavorazione del minerale ferroso che si estraeva dalle miniere della zona. Il minerale, estratto a fatica dai minatori, era trasportato a Ornica a dorso di mulo e sottoposto a procedimento di fusione nei forni, per essere trasformato in verghe di metallo puro, pronte per la lavorazione nelle numerose fucine chiodarole del paese. Fu la presenza di tali impianti ad alimentare nella fantasia popolare l'accostamento dell'immagine del fuoco a quella dell'inferno, luogo del fuoco per eccellenza. A tale concezione è legata anche una leggenda, alquanto ingenua, che ancora oggi è raccontata a Ornica. Il più grosso di questi forni era gestito in epoca assai remota, da persone forestiere, forse della Valsassina, specialiste del mestiere, che si dedicavano senza sosta a ridurre il minerale in ferro puro. Questi forestieri, narra la leggenda, non vedevano di buon occhio gli abitanti di Ornica, al punto che, ogni tanto, trovandosi a corto di legna o di carbone, non si facevano scrupolo di prendere qualche Ornichese che passava da quelle parti e gettarlo vivo nella fornace per alimentare il fuoco. Una terribile paura assalì allora gli abitanti di Ornica che presero a chiamare quel luogo la "Valle d'lnferno". Le prepotenze dei forestieri durarono a lungo finché, un bel giorno, i capifamiglia di Ornica, risoluti a porre fine a quelle crudeltà, si riunirono in assemblea e decisero di inviare tre loro rappresentanti a Venezia per chiedere aiuto al governo lagunare. Il viaggio dei tre delegati fu proficuo, infatti, dopo un paio di mesi essi se ne tornarono a Ornica portando con sé un carro carico di archibugi e bombarde. Felici per il buon esito della missione, gli Ornichesi costruirono un fortino proprio dirimpetto al forno infernale, vi installarono le armi e presero a far fuoco contro l'impianto, distruggendo in breve ogni cosa. Così il forno maledetto sparì, ma il nome dato alla Valle d'Inferno è rimasto fino ad oggi.


17) Ambriola: Santa Lucia, gli aghi e le segherie Santa Lucia
Nella frazione di Ambriola, Comune di Costa Serina in Valle Brembana, l’unica festa importante, una sagra del paese, che si festeggia ogni anno è quella di Santa Lucia. Per questa Santa hanno una devozione particolare, non solo gli abitanti di Ambriola, gli Ambriolesi, ma anche gli abitanti dei paesi vicini che, il 13 dicembre di ogni anno, si radunano numerosi per invocare la benedizione di Santa Lucia contro le malattie degli occhi. In questo giorno le donne del luogo si guardano bene dal prendere in mano l’ago per cucire o rammendare, per non correre il pericolo di rimanere accecate. Non solo non bisogna usare gli aghi, ma neppure far funzionare le segherie, sotto pena di grossi guai per chi osa non rispettare l’usanza. Si racconta che sulla strada di Serina, a circa mezz’ora da questo paese, c’è una segheria che, per la grande richiesta di legname, durante la guerra 1915-18, doveva lavorare incessantemente sotto il controllo di due bravi fratelli che si alternavano continuamente. La notte del 13 dicembre 1917, il giovane di turno, uno dei due fratelli, sentì uno strano rumore e poi fu molto sorpreso di vedere la sega fermarsi di colpo. Non riuscendo a farla ripartire chiamò il fratello che dormiva in uno stanzino lì vicino. Entrambi, dopo molti sforzi, riuscirono a rimetterla in moto e stavano per andarsene quando uno schianto tremendo li fece tornare indietro a vedere cosa accadeva. La sega mandava fiamme, ed essi, colpiti da un urto violento, furono rimbalzati dentro la stanzetta da dove erano usciti. I due giovanotti non seppero mai spiegare quanto era loro accaduto. La segheria riprese a funzionare regolarmente il giorno dopo, come se nulla fosse stato. Si dice che l’antico padrone della segheria, morto alcuni anni prima, si facesse “sentire” durante la notte, e che quella volta avesse voluto far capire di non volere che la sega lavorasse il giorno di S. Lucia.

 

18) La caccia-selvatica o caccia-morta

Una leggenda assai popolare nella Bergamasca è quella della “caccia-selvatica” o “ caccia-morta”. In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati. Erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un'incessante quanto sterile caccia.

-Si sussurra che a Costa Serina un viandante, imbattutosi in una di queste orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l'avesse mai fatto; rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra premonizione di tragedia, dalla quale l'aveva salvato il suo parroco, consigliandogli di riportare di notte l'ingombrante reperto sul luogo dell'incontro con la caccia-selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, con terrore, riuscendo a cavarsi d'impaccio.

-Molto simile è il racconto della caccia-morta a Valgoglio, dove si dice che una donna osservando quei dannati in corsa sfrenata espresse una bizzarra richiesta: "Portatemi un po' della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini". Fu subito accontentata; il mattino dopo trovò appesa fuori della sua casa una gamba umana. Impaurita, la donna corse a raccontare l'accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in guardia e le suggerì per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel pieno della notte la caccia-morta tornò e dalla canea vociante si alzò un grido d'oltretomba, rivolto proprio a lei: "Buon per te che sei in mezzo all'innocenza, altrimenti l'avresti pagata cara per aver osato parlare alla caccia-morta".


Dalmine,  maggio 2010  -  fac/